![Game of Thrones 3x01 Neofiti](http://www.serialmente.com/wp-content/uploads/Game-of-Thrones-3x01-Neofiti.png)
Disclaimer: QUESTO ARTICOLO NON CONTIENE SPOILER. I due articoli dedicati all’episodio differiscono per alcuni piccoli dettagli. Quello rivolto ai lettori, infatti, presenta in più punti considerazioni sugli sviluppi della vicenda che rischiano di rovinare la visione a chi già non conosce l’opera letteraria. Andate pure a sbirciare dall’altra parte se non siete sensibili agli spoiler. Lettori: se volete commentare anche questa recensione, state ben attenti a non rivelare nulla di quanto avviene nel prosieguo di A Storm of Swords. Buona lettura!
In the center of the Plaza of Pride stood a red brick fountain whose waters smelled of brimstone, and in the center of the fountain a monstrous harpy made of hammered bronze. Twenty feet tall she reared.
Come il titanico muro di ghiaccio che separa le terre degli uomini dalle cupe foreste dove l’inverno non muore mai, come la tentacolare fortezza nei cui segreti recessi si tessono gli intrighi del potere, anche l’arpia di bronzo che sovrasta Astapor ha la forza icastica di un simbolo. Di più: di un totem, tale è l’identificazione dei popoli della Slaver Bay – accanto alla perduta Valyria, più o meno a metà fra Westeros, a occidente, e Qarth, a oriente – con questo mostro mitologico, collegato nella tradizione classica dapprima al trasporto degli spiriti dei morti nell’Ade e in seguito a malvagità e aberrazioni, come in Virgilio e poi in Dante. Qui, l’arpia incarna la cultura schiavista del popolo ghiscari, le cui opulente città-stato sono fondate sullo smercio di uomini, e l’autorità assoluta che questi «buoni padroni» vantano sulle loro proprietà. Brutale, violenta, sanguinaria: fra tutte le facce del potere che George Martin, David Benioff e D.B. Weiss ci mostrano, smascherandole, questa è forse quella più ripugnante, ma – e la sceneggiatura è lesta, abile, nel ricordarcelo – non è poi così diversa da quella mostrata da leoni e rose, corvi e lupi.
La guerra dei Cinque Re prosegue, infatti, e i giorni non hanno reso più lieve il tributo – di terra e di sangue – che il popolo tutto sta pagando per le decisioni dei grandi lord, ben chiusi nei loro castelli, intenti a giocare il gioco del trono come se fosse un mero esercizio cerebrale. E invece l’effetto delle loro decisioni, delle loro mosse, è reale: mercanti che fuggono con le loro galee veloci dalla guerra, cercando rifugio a sud, a Dorne, dove l’estate indugia ancora nei parchi; centinaia di orfani accalcati, quasi per dimenticanza, come se nessuno sapesse bene che farsene, nel quartiere più povero e sporco di King’s Landing, Flea Bottom; Harrenhal trasformato in un carnaio: soldati, civili, cavalli uccisi e abbandonati a marcire fra le macerie del castello, senza nome, senza dignità. Due le fazioni che più gravemente accusano il protrarsi della guerra: gli Stark, nel cui esercito, ora che Catelyn ha tradito la fiducia di Robb e liberato Jaime, serpeggia il malcontento, tanto fra i soldati quanto fra i nobili, privati della loro vendetta nei confronti del Leone di Lannister, e i Baratheon di Stannis, tornato a Dragonstone per riorganizzarsi dopo la sconfitta di Blackwater e sempre più in balia di Melisandre, la sacerdotessa di R’hllor che ha iniziato a bruciare gli infedeli dell’isola nel nome del dio della luce. Lo scorso anno, Benioff e Weiss hanno scelto di relegare in secondo piano lo scontro religioso a cui tanto approfondimento è invece dedicato nella saga letteraria, limitandosi a mostrare lo sconcerto di Davos davanti alle «stregonerie» di Melisandre: si sono perse, così, le differenze profonde, inconciliabili, fra la religione dei Sette Dei, simile al cristianesimo medievale per contenuto del culto e organizzazione della struttura ecclesiastica, e il credo estremo di R’hllor, che ricorda – almeno superficialmente – certe eresie manichee del medesimo periodo. Si trattava certo di un sostrato difficile da rendere sullo schermo senza scivolare in una sterile esposizione dialogica, ma credo che la sua quasi totale espunzione renda più difficile apprezzare la reazione di Davos davanti alla sacerdotessa: I do not judge people for the gods they worship. If I did, I’d have thrown you in the sea before you ever set foot on Dragonstone.
Al contrario, lo show non lesina certo – e per fortuna – sulla dettagliata descrizione dei nuovi equilibri politici forgiati dalla vittoria dei Lannister nella battaglia di Blackwater. L’alleanza con i Tyrell, infatti, sembra aver giovato all’Iron Throne e a King’s Landing, non solo in termini di approvvigionamenti – They tell me a hundred wagons arrive daily now from the Reach, ricorda Margaery a Cersei, fin troppo consapevole di quanto la corona stia ormai diventando dipendente dalla generosità di High Garden –, ma anche di popolarità: ben lungi da essere la spontanea manifestazione di una principessa vicina ai poveri e ai derelitti, la visita della promessa sposa di Joffrey all’orfanotrofio ha il sapore di una vera e propria campagna elettorale. La posta in palio: l’adorazione del popolino, le cui simpatie i Lannister si sono da tempo alienati. La battaglia di Blackwater, però, ha anche causato un altro rivolgimento nello scenario della capitale: benché sia stato – nel romanzo ancora più che nella serie – il vero artefice della vittoria, Tyrion, messo in disparte dall’ingombrante figura del padre, si trova spinto ai margini della corte, privato tanto del potere che aveva imparato ad apprezzare quanto degli agi che derivavano dalla sua posizione, politicamente isolato e acutamente consapevole che Cersei – timorosa di veder traditi i suoi segreti e spaventata dall’acume del fratello – sta solo aspettandolo l’occasione giusta per liberarsi una volta per tutte di lui. Perfino Bronn sembra voler prendere le distanze: I sell my sword. I don’t loan it out to friends as a favor, ricorda il mercenario, che pure a Tyrion deve tutte le sue fortune. È un ribaltamento completo rispetto alla scorsa stagione, in cui, come aveva argutamente sottolineato Varys, l’ombra del seppur piccolo Imp si era allungata su tutti i Seven Kingdoms, e sarà interessante vedere Peter Dinklage alle prese con un Tyrion costretto a combattere con le unghie e con i denti per riconquistarsi ciò che è suo. Di certo, a giudicare dalle scene con Cersei e Tywin, entrambe scritte e interpretate in maniera superna, gli autori hanno intenzione di dedicarsi al percorso del personaggio con cura e attenzione particolari.
Attenzione e cura, a differenza di quanto accaduto nella scorsa stagione, sembrano caratterizzare anche le scene dedicate a Daenerys, vera e propria pièce de résistance dell’episodio. Non si tratta solo del trionfo visivo di Drogon che volteggia sopra la nave su cui viaggiano i resti del khalasar di Dany o che si tuffa in acqua per afferrare un pesce, posandosi poi sul ponte per farsi accarezzare le lucide scaglie, o dell’approssimarsi imponente delle mura e delle torri di Astapor, sormontate dall’effigie spaventosa dell’arpia. Si tratta anche – al contrario, appunto, di quanto accaduto con Qarth – di rendere al meglio l’alterità delle civiltà con cui Dany, nel suo lungo peregrinare alla ricerca della via di casa, entra in contatto, e dunque dello scontro culturale – in tutto simile a quello religioso di cui parlavamo in merito a Davos e Melisandre, e a quello politico incarnato dagli Stark e dai Lannister – che nasce dall’urto di due visioni del mondo antitetiche, culto della libertà individuale e totale sottomissione dell’individuo al potere centrale, in cui non è difficile riconoscere echi, per quanto trasfigurati in modo immaginifico, del conflitto fra la grecità classica e l’impero persiano. L’efficace regia di Daniel Minahan ha il pregio di rendere Astapor da subito minacciosa e aliena e lo stratagemma della diversità linguistica acuisce l’atmosfera straniante. Questo senso di tensione e sottile pericolo culmina nella scena finale dell’episodio, dove solo il tempestivo intervento di Ser Barristan Selmy impedisce all’inquietante sicario dal volto di bambina, al soldo degli Stregoni, di assassinare Daenerys. L’arrivo del più grande cavaliere dei Seven Kingdoms e il suo giuramento di lealtà rappresentano una svolta importante per Dany e segnano l’inizio di un percorso che si preannuncia visivamente lussureggiante e narrativamente ricco.
Una delle critiche che più spesso sono mosse, soprattutto dalla stampa americana, a Game of Thrones, è la natura centrifuga, ondivaga e tentacolare della narrazione. Ora: è senz’altro vero che, talvolta, Benioff e Weiss affastellano troppe scene in un singolo episodio – anche in questa première, per esempio, quelle dedicate a Jon, pure segnate dalla magnificenza di Ciarán Hinds nei panni di Mance Ryder e dall’apparizione mozzafiato del gigante, avrebbero potuto essere rimandate senza turbare l’equilibrio compositivo della puntata –, ma credo che una simile proliferazione di luoghi, volti, avvenimenti sia necessaria per rendere evidente, per dare corpo tangibile alla vastità e alla profondità dell’universo narrativo creato da Martin, che trova non già nell’unità di luogo, di tempo o di azione la sua coesione, ma nel tema – il potere, e i modi in cui si articola il conflitto per ottenerlo, siano essi, come si diceva, religiosi, politici o culturali. L’episodio, dunque, non sarà forse perfetto – oltre alle scene di Jon Snow, anche la risoluzione del cliffhanger dello scorso giugno è piuttosto affrettata e deludente –, ma, per nostra fortuna, indovina il ritmo, l’atmosfera, i personaggi più spesso, molto più spesso di quanto non li manchi, confermando che, quando è al suo meglio, Game of Thrones è unico.
Nota: A giudicare dal promo del prossimo episodio, tutti i personaggi che non sono comparsi in questa première ritorneranno per Dark Wings, Dark Words. Se avete seguito le notizie dei casting, di quale new entry aspettate con più trepidazione la comparsa? Per quanto mi riguarda, non vedo l’ora di vedere la Regina di Spine e Jojen Reed.
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