
Disclaimer: Ciao, questo articolo è in tutto e per tutto uguale all’altro che compare nella homepage del sito, l’unica differenza è che qui commenta chi ha letto i libri di George R. R. Martin della saga di A Song of Ice and Fire e vuole discuterne con gli altri lettori.
I commenti in calce a questo articolo sono riservati solo agli utenti che hanno letto i romanzi da cui è tratto lo show. Tutti gli spoiler saranno tollerati, ma fino a A Dance with Dragons (o, nell’edizione italiana, fino a La danza dei draghi). La discussione è aperta anche ai non lettori di libri autolesionisti, ai cacciatori di spoiler, a George R. R. Martin e ai proprietari di draghi dotati di regolare licenza.
Premessa breve ma necessaria: Ciao, sono Chiara, sono quella che aveva scritto del Red Wedding. Quell’episodio lì non mi era piaciuto. Questo, che i fan chiamano “Purple Wedding”, neanche. So che molti leggono il voto e poi passano diretti a scannarsi (e scannarmi) nei commenti: lo capisco, io non so se avrei voglia di leggermi un articolo così lungo che già sono certa di odiare. Quindi ho pensato di farvi un favore e dirvelo subito. Prego.
La recensione inizia qui.
Una morte apre l’episodio e, tramite quelle piccole, perverse connessioni in cui Game of Thrones si è specializzato, è vendicata dalla morte che lo chiude. La prima è quella di una ragazza priva di identità ma caratterizzata per opposizione al suo carnefice: è vittima di Ramsay Bolton/Snow e della sua nuova amica, è giovane, vestita di bianco, succube, umiliata, sconfitta. La sua morte, braccata da un bastardo sadico e sbranata dai suoi cani, non è che un veicolo: dà il tono all’episodio e ci ricorda la posizione di un’altra vittima domata da Ramsay, Theon. Ma introduce anche, per contrappasso, la morte di Joffrey che chiude l’episodio: costruita per opposizione, con una grande festa estiva che contrasta con la foresta buia e fredda, la farsa dei nani che rispecchia la carica dei cani, e la morte del carnefice e sadico che vendica quella della fanciulla.
Ciò che accade nel mezzo è, purtroppo, ascrivibile alla semplice caratterizzazione di personaggi e vicende: un elemento fondamentale a qualsiasi serie ben riuscita ma che qui si prende troppo spazio a discapito della trama e dei personaggi stessi, Se ogni scena, ogni dialogo, ogni interazione è volta alla definizione della posizione emotiva o gerarchica di un personaggio in un dato momento, la narrazione è sacrificata a sfondo e la trama risulta al meglio povera e al peggio del tutto insoddisfacente. Grandi personaggi, grandi attori, ma le loro azioni – anche in un episodio con una grossa svolta narrativa come questo – sono così diluite da diventare fini a se stesse.
Prendiamo, a particolarmente fastidioso esempio, la scena di Tyrion che molla Shae. È la ripetizione di una dinamica già vista: lui cerca di scaricarla con le buone, lei recalcitra, lui cerca di farle capire che non c’è proprio modo, lei fa la sexy, lui le fa capire che è in pericolo, lei rivendica il sacrosanto diritto di farsi ammazzare. Qui, però, si va un passettino oltre, tanto da rendere la scena, oltre che noiosa, anche poco plausibile: lui non prova neanche a spiegarle che sono stati scoperti, ma gioca tutto sul sentimentale, le fa credere di non amarla più e che per questo la manterrà, vita natural durante, in un’altra città. Non ha senso per Shae, che prima di cedere al pianto più forzato della storia della recitazione prova a opporsi; non ha senso per Tyrion, che se proprio deve spedire in un’altra città la sua concubina tanto vale poterla passare a trovare. Soprattutto non ha senso per lo spettatore.
Sullo stesso tono pretestuoso le interazioni di minaccia passivo-aggressiva: Oberyn vs Tywin, Jamie vs Loras, Cersei vs Brienne. Tutti questi dialoghi hanno il ruolo di ricordarci rispettive posizioni, rapporti tra i personaggi, vicende e trascorsi, ma nella cornice di un episodio con una conclusione simile sembra che rubino spazio alla preparazione del terreno. La responsabilità di far montare la tensione è lasciata interamente alla crudeltà di Joffrey, sempre più intensa e gratuita nel corso dell’episodio, soprattutto nei confronti di Tyrion; ma anche quella rischia di superare il grottesco e farsi caricaturale, un effetto rinforzato dal benevolo divertimento con cui Tywin accoglie le bravate del nipote.
Martin è eccellente, a mio parere, nel punire Joffrey con una morte banale, quasi degradante. Concordo con chi sostiene che una morte così anticlimatica priva lo spettatore, almeno in parte, di una soddisfazione attesa per tre stagioni; ma su questo sono con l’autore, preferisco la gratificazione, se vogliamo più razionale e meno d’impatto, data dal sapere che ogni personaggio ha la morte che si merita, scenograficamente parlando.
Tuttavia, come dicevo più su e come scrivevo l’anno scorso rispetto al Red Wedding, non credo (e magari è un problema mio) che la riuscita di un episodio si possa ridurre all’impatto del colpo di scena finale. Ma i difetti di The Lion and the Rose – titolo che allude all’unione tra Lannister e Tyrell, e richiama, nel farlo, quel The Bear and the Maiden Fair che invece indugiava sulla nascente amicizia tra Jamie e Brienne, qui ripresa – sono i difetti di una piega generale che ha preso la serie.
Non so come la vivete voi, ma per me la puntata settimanale di Game of Thrones si è completamente spogliata di quell’aura di visione-evento ed è diventata un po’ un TG Westeros: cosa sarà successo oggi nei Sette Regni? Chi è stato uno stronzo questa settimana? Che tempo fa oltre la Barriera? Sono stati avvistati dei draghi, uccisi degli innocenti? Sansa ha sofferto? Quanto ha sofferto?
(Breve intermezzo: sono l’unica che durante la visione di Game of Thrones si culla nell’idea che Sophie Turner sia una giovane ragazza felice, nella vita vera? Così, per sapere se è solo una necessità mia. Se c’è qualcun altro, là fuori, si faccia avanti che ci scambiamo le giffine.)
Col tempo, la serie ha perso la capacità di darmi una narrazione organica e ha preso la forma di recappone delle vicende, una sorta di previously lungo un’ora che sintetizza cose che ancora non abbiamo visto, ci ricorda cose che non ricordavamo (sì, per tutti i perplessi e/o smemorati là fuori – vi capisco –, Myrcella, la figlia di Cersei, è stata spedita a Dorne durante la guerra per ragioni di cui siamo stati più o meno messi a parte) e tenta di porre le basi per cose che, quando succederanno, ci saremo già dimenticati. Diventa un esercizio mentale faticosissimo, se lo si guarda con l’intenzione di far quadrare tutto: si esce da ogni episodio con l’impressione di essersi persi qualcosa, sia un nome, un dialogo, un riferimento.
Non è (sempre) colpa degli autori: il materiale di partenza è complicatissimo da gestire, e credo che questo sia ormai evidente anche ai non lettori. Più episodi, o un minutaggio maggiore, non farebbero che diluire le scene di passaggio, quelle belle sulla carta ma poco efficaci sullo schermo. A Song of Ice and Fire, la saga di romanzi, è densa di capitoli bellissimi che si svolgono quasi interamente nella testa dei personaggi. Da fuori, il personaggio cammina. Da dentro, i puntini si uniscono, i dadi si traggono, e il lettore segue da vicino lo svolgersi di un viaggio quanto lo svolgersi di una maturazione interna, una presa di posizione, una relazione quasi sempre composta da piccoli gesti.
Una volta un bravissimo autore di fumetti mi ha argomentato la sua critica a un soggetto spiegandomi che era poco visivo: le scene, diceva lui, sembravano belle se raccontate, ma noiose da disegnare. Credo che Game of Thrones soffra di una condizione simile, pur con la sua opulenta messa in scena: il libro ha modo di accompagnare il lettore al colpo di scena facendolo passare attraverso la mente dei personaggi; la serie deve trasformare queste lunghe riflessioni in dialoghi affrettati, che hanno il sapore dello spiegone buttato lì e impoveriscono lo spessore narrativo. Purtroppo, al tempo stesso, non ha grandi alternative: lo schermo ha tanti vantaggi, grandissime capacità visionarie e visive, ma non avrà mai la flessibilità immaginifica della carta.
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